Le Experience sono speciali attività off-site progettate per piccoli gruppi aziendali.

Integrando formazione e ben-essere, offrono ai partecipanti occasioni di apprendimento che mescolano natura, gusto, cura di sé e relazione con l’Altro. Per saperne di più visita l’area del sito dedicata….

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Aziende

Qualche settimana fa un articolo sul Corriere della Sera riportava l'attenzione sul crescente livello di insoddisfazione dei lavoratori italiani. Una recente ricerca dell’Osservatorio Hr Innovation Practice del Politecnico di Milano rileva, infatti, che solo il 10% dei lavoratori afferma di godere di un livello soddisfacente di benessere fisico, relazionale e mentale. È vero che spesso queste ricerche offrono uno spazio di sfogo alle persone intervistate, però i numeri sono sempre numeri. Il lavoro continua ad essere per troppe persone un'esperienza faticosa e deludente. L’affermazione del fenomeno del “quite quitting” - siccome sono insoddisfatto, e la prospettiva di cambiare lavoro non sembra al momento accessibile, faccio il minimo indispensabile e non chiedetemi di più - rivela la percezione di una trappola. Il periodo successivo al Covid aveva infatti spinto molte persone a cambiare lavoro, nella convinzione e nella speranza di poter accedere a esperienze migliori. Avevamo chiamato questo fenomeno “great resignation”, intravedendo forse una spinta al cambiamento di maggiori dimensioni, quasi “a qualunque costo”, e invece studi successivi avevano ribattezzato il fenomeno, più realisticamente, “great turnover”, e in alcuni casi “boomerang employees”, con evidente riferimento al movimento di ritorno e alla delusione di un tentativo imprudente. Questo trionfo circolare di etichette ci ha portati infine al punto di partenza, alla cocente delusione di una esperienza del lavoro in evidente impasse, nonostante le straordinarie potenzialità dispiegate dalle tecnologie. E allora, di fronte a scenari di crescente incertezza e al corrispondente bisogno di sicurezza e protezione, non rimane che stare dove siamo, facendo quello che dobbiamo, ma niente di più, senza entusiasmo, rinunciando a chiedere a questa esperienza così fondamentale di essere fonte di benessere vitale, di nutrire e riempire la nostra esistenza. Eppure molte organizzazioni credono profondamente nella possibilità di migliorare la condizione di benessere delle persone al lavoro, e molto si fa per alimentare il livello di engagement dei collaboratori. Ma i risultati spesso non sono confortanti. Perché? Credo che due siano le questioni da considerare. Per individuare la prima riprendo la definizione di engagement formulata in una ricerca di Alessandra Mazzei qualche anno fa (qui i riferimenti della ricerca), secondo la quale esso è “un tratto personale di disposizione all’entusiasmo che quando interagisce con fattori situazionali determina uno stato psicologico persistente di assorbimento cognitivo nel proprio lavoro, dedizione emotiva e vigore, cioè energia”. Le organizzazioni che vogliono alimentare engagement naturalmente concentrano la loro attenzione sui “fattori situazionali”, quelli sotto il loro controllo, per offrire condizioni di lavoro in grado di attivare quella disposizione all'entusiasmo che mette in moto l'azione organizzativa. Ma l'elemento spesso trascurato nelle analisi è proprio quest'ultimo: l’entusiasmo. La  disponibilità personale ad impiegare l'energia vitale nel lavoro, a “metterci del nostro”, è una condizione che appartiene alla persona, è separata da ciò che l'azienda può fare per attivare o inibire il nostro entusiasmo. I due elementi dell'engagement - la disposizione all'entusiasmo e i fattori situazionali - sono fortemente legati tra loro e interdipendenti, ma sono diversi. Uno appartiene alla persona, l'altro all'ambiente organizzativo in cui opera. Se si trattasse di matematica, diremmo che per cambiare il risultato dobbiamo intervenire non solo sul denominatore ma anche sul numeratore. La questione centrale è che mentre le organizzazioni cercano di intervenire sulle condizioni del lavoro, sono fortemente mutate negli ultimi anni le aspettative soggettive e la rappresentazione di quell'esperienza centrale nella nostra vita che chiamiamo lavoro. Le persone desiderano un equilibrio diverso tra il lavoro e la vita privata, accettano con un crescente grado di insofferenza i climi organizzativi tossici, cercano relazioni nutrienti anche sul lavoro con colleghi e manager, desiderano percorsi di sviluppo professionale e retribuzioni che consentano almeno una vita dignitosa, tanto per citare le voci

Che le parole plasmino la realtà e soprattutto il modo in cui la percepiamo è ormai accertato. Ogni parola porta con sé e in sé significati che sono il frutto di stratificazioni culturali più o meno complesse e lontane nello spazio e nel tempo. E meno esse sono riferite a oggetti concreti e chiaramente 'circoscrivibili' più queste stratificazioni tendono ad ampliarsi. Il mondo del lavoro e in particolare delle organizzazioni professionali è pieno di termini che fanno riferimento a concetti astratti, che racchiudono una gamma spesso molto eterogenea di possibili fenomeni. Ecco perché, dal nostro punto di vista, se si vuole che la trasformazione dell'esperienza lavorativa cui stiamo assistendo conduca verso esiti migliorativi è fondamentale che essa passi anche attraverso un rinnovamento linguistico. In un precedente articolo avevamo ad esempio messo provocatoriamente in discussione l'utilizzo della parola "leadership" suggerendo di sostituirla con "provision", proprio perché meno connotata culturalmente di significati potenzialmente problematici. Questa volta vorremmo soffermarci su un'altra coppia di termini molto utilizzati (per non dire abusati) nel lessico aziendale: il primo è "efficace" e con esso ci si riferisce di solito alla qualità di una qualunque prestazione individuale o collettiva, con un'enfasi particolare sul risultato raggiunto: più esso risponde alle aspettative del committente, più la prestazione sarà considerata efficace. Il secondo è 'efficiente', che invece pone l'accento sul consumo di risorse (tempo, energie, denaro, materiali

La saggezza è un attributo che da sempre viene attribuito a figure eminenti da cui, almeno in teoria, bisognerebbe farsi guidare. Secondo il dizionario di Oxford è definita come: “L'equilibrio nel comportamento e nel consiglio, che è frutto di una matura consapevolezza ed esperienza delle cose del mondo.”  Ad una prima lettura appare lampante come la saggezza incarni due direttrici: una auto-diretta (verso sè stessi) e una etero-diretta (verso gli altri); un moto che agisce prima sull’individuo che la incarna e successivamente su coloro con cui questa persona si relaziona. Tuttavia, per quanto evocativa, la saggezza è una dimensione dell’essere che risulta difficile da indagare, soprattutto con gli strumenti riduzionistici della logica ‘classica’. Eppure c’è chi ha provato a muoversi in questo territorio incerto con rigore scientifico… Proprio quest’anno, un numero nutrito di ricercatori guidati da Maksim Rudnev dell’Università Canades e di Waterloo, ha pubblicato un’interessante articolo su Nature Communications che si pone l’ambizioso obiettivo di domandarsi quali siano le dimensioni che veicolano la percezione della saggezza, ovvero, quali siano le caratteristiche che una persona dovrebbe possedere per essere percepita come saggia. Lo studio, condotto su uncampione di 12 paesi appartenenti a 5 continenti diversi, ha fatto emergere due dimensioni principali: l’orientamento riflessivo e la consapevolezza socio-emotiva. Per orientamento riflessivo si intende principalmente la capacità di affrontare i problemi avvalendosi del pensiero analitico; ma attenzione, ciò non significa limitarsi a una semplice applicazione della logica. Questo tipo di orientamento richiede anche la capacità di fermarsi, riflettere e considerare una varietà di prospettive (convergenti e, forse soprattutto, divergenti) prima di prendere una decisione. Tale postura enfatizza e sottolinea la capacità diregolare le emozioni personali, ascoltandole, comprendendole e accettandole, per evitare che influenzino in modo negativo le decisioni; inoltre, consente di apprendere dall’esperienza e di applicare le lezioni imparate da essa in situazioni nuove. La mente riflessiva, quindi, non è solo logica, ma anche meditativa e lungimirante, cioè in grado di prevedere le conseguenze delle proprie azioni valutando attentamente ogni aspetto della situazione. La consapevolezza socio-emotiva invece evidenzia l’importanza di connettersi con gli altri in modo profondo e rispettoso. Questa capacità non riguarda solo il comprendere le emozioni degli altri, ma anche l’avere empatia e umiltà: qualità che permettono di entrare in sintonia con gli altri e di offrire sostegno senza giudizio. La consapevolezza socio-emotiva aiuta a evitare che l’ego o la rigidità personale ostacolino il rapporto con gli altri, promuovendo relazioni basate sulla comprensione reciproca e sul rispetto. È attraverso questo aspetto "del cuore" che una persona saggia può agire non solo per il proprio bene, ma anche per il bene collettivo. Riteniamo che queste due dimensioni, senza che esse semplifichino eccessivamente la questione (per approfondire vi rimandiamo direttamente alla consultazione del paper), se integrate nell’agire organizzativo possano generare impatti operativi e culturali in grado di modificare profondamente i contesti lavorativi, migliorandoli. E voi cosa ne pensate? Vi vengono in mente ulteriori dimensioni della saggezza? Vi capita di riscontrare persone o comportamenti ‘saggi’ nella quotidianità professionale? Per saperne di più, clicca qui!

Mentre registravamo una puntata dedicata alla salute mentale nei contesti lavorativi per il nostro podcast WIP – Work In Progress, l’ospite (Biancamaria Cavallini, psicologa del lavoro e Direttrice Scientifica di Mindwork) ci ha fatto notare una cosa che ho trovato molto interessante. Faccio un piccolo passo indietro. Bianca stava rispondendo a una domanda relativa alle pratiche quotidiane che possono aiutarci a prevenire gli effetti collaterali dello psico-stress a cui siamo sottoposti, non solo mentre lavoriamo. La sua riflessione è stata più o meno questa: partendo dal presupposto che non esistono in senso assoluto routine giuste o sbagliate, è però di per sé curioso constatare come non ce ne siano di socialmente diffuse e accettate, come accade per la sfera corporea. E ci ha fatto un esempio lampante: di solito consideriamo come parte integrante della nostra vita lavarci i denti almeno una volta al giorno, fin dall'infanzia. Non ci sforziamo di farlo, non dobbiamo trovare particolari escamotage per ricordarcene né aderire ad alcun complicato sistema di credenze per considerare questo gesto utile alla nostra salute. Semplicemente sappiamo che la sua ripetizione giornaliera contribuisce all’igiene dei nostri denti: non ci aspettiamo effetti miracolosi dalla sera alla mattina e siamo consapevoli che la differenza sta proprio nella continuità nel tempo di quel ‘rito’. Accettiamo inoltre il fatto che potremmo comunque aver bisogno di una qualche manutenzione straordinaria, ma proprio per questo quella ordinaria è fondamentale. Tutto molto semplice. Eppure sfido il lettore a trovare un corrispettivo del tooth brushing (maledetti inglesismi!) per la tutela della salute mentale: una piccola pratica giornaliera, condivisa su larga scala, che aiuti a quietare e ripulire la mente dal caos e della ‘scorie’ che così facilmente intercettiamo. Forse è difficile identificarla perché siamo culturalmente poco abituati a ragionare in termini di prevenzione in relazione a questa ‘dimensione’. Essendo meno solida e quindi più sfuggente finiamo per trascurarla, con tutti gli effetti collaterali che ciò comporta. La nostra ospite ha concluso il suo intervento invitando allora gli ascoltatori a identificare, pensando all’esperienza personale, un’attività capace di restituire piacere e relax: ascoltare musica, leggere, fare a maglia, passeggiare…   Un’azione che abbia come unico intento il gusto dell’azione stessa, senza secondi fini o intenti performativi. Bene, quella può diventare un ottimo punto di partenza per consolidare la propria routine d’igiene mentale, a cui dare perlomeno lo stesso valore della cura riservata ai denti. Il ben-essere, dentro e fuori dai contesti lavorativi, è il frutto di tanti invisibili e irrisori comportamenti che nondimeno, lentamente, indirizzano e plasmano quella che chiamiamo e percepiamo come qualità della vita. Per contribuire al passaggio dall’igiene dentale a quella mentale (senza però smettere di lavarsi i denti, sia ben chiaro!) mettiamo a disposizione una breve e semplice pratica meditativa guidata, auto-somministrabile alla bisogna e senza nessun effetto collaterale: il nostro dentifricio biologico al gusto mindfulness 😜! ASCOLTA LA TRACCIA

Come ormai sa chi ci segue, tendenzialmente "parliamo" solo quando riteniamo di avere qualcosa di significativo da raccontare. Ad esempio quando si tratta di celebrare progetti particolarmente importanti come quello che abbiamo da poco concluso per Alpro, il marchio DANONE specializzato in prodotti a base vegetale. Il primo motivo di soddisfazione è legato all'essere stati confermati come partner di una grande multinazionale dopo l'esperienza dell'anno scorso, quando avevamo tradotto e adattato il training "Enabling Sustainable Diets", un corso destinato a tutti i dipendenti e dedicato all'alimentazione sana e sostenibile. Quest'anno ci è stato chiesto di creare un ulteriore percorso formativo che riprendesse quelle tematiche focalizzando in particolar modo l'attenzione sullo stretto e stratificato rapporto fra salute, sostenibilità ambientale e alimentazione plant based. È nato così "Buono per te, buono per il pianeta": in tre sessioni che mescolano dati scientifici, sperimentazioni, interviste a esperti e informazioni su prodotti e processi produttivi, i partecipanti (accompagnati da due voci narranti) sviluppano una progressiva consapevolezza rispetto a questioni ecologiche oggi imprescindibili. Inoltre il training illustra in che modo Alpro sta lavorando da anni non solo alla sensibilizzazione dei consumatori circa l'importanza di una dieta a base vegetale, ma si sta impegnando concretamente per diventare un'azienda sempre più virtuosa, dalla coltivazione della materia prima alla distribuzione, passando per il packaging. Come accennato il corso è per il momento accessibile solo ai dipendenti DANONE e va nella direzione di consolidare una cultura e dei comportamenti coerenti con i valori aziendali; non è tuttavia escluso che in futuro venga reso fruibile a tutti. Per quanto ci riguarda, siamo orgogliosi di collaborare con realtà organizzative che coltivano una visione del mondo fondata su una concezione così ampia di Salute, che riconosce cioè la sostanziale interdipendenza fra esseri umani e pianeta. Questo per noi vuol dire fare impresa in modo saggio, e ce n'è un gran bisogno!

Il concetto di leadership è fra i più dibattuti nella storia degli studi organizzativi e il termine fra i più utilizzati all'interno delle aziende. Esistono un'infinità di manuali che provano a descrivere quella che viene a volte considerata principalmente un'attitudine, altre volte più una competenza da allenare, altre ancora una specie di talento naturale. Modelli che ne delineano le caratteristiche ispirandosi ai più disparati mondi e ambiti (dall'etologia alla mitologia, dallo sport alla storia) e le modalità per il suo sviluppo. È entrato a far parte del vocabolario comune e lo sentiamo pronunciare in molteplici contesti, di norma associato ai comportamenti di un individuo, detto leader, al quale si attribuisce la capacità di guidare (dall'inglese 'to lead') persone più o meno formalmente sotto la sua responsabilità. Tant'è che quando un gruppo di qualsiasi tipo (partito, squadra, impresa, complesso musicale

Sono successe alcune cose negli ultimi mesi che meritano almeno un blogpost per essere raccontate e condivise con tutti coloro che apprezzano il lavoro di MensCorpore. Per prima cosa siamo davvero orgogliosi di annunciare l'avvio di una bellissima collaborazione con il CFMT, Centro Formazione Management del Terziario, il "braccio formativo" di Confcommercio che offre percorsi di sviluppo ai dirigenti delle imprese del terzo settore. Già questo sarebbe più che sufficiente per renderci felici, ma c'è di più: a Marzo, la prima attività erogata sotto il loro cappello è stato un workshop dedicato al Wiseworking per una delle più importanti Società di consulenza a livello mondiale. Non poteva esserci occasione più prestigiosa e sfidante per mettere alla prova le tante riflessioni sviluppate intorno ad un'idea che abbiamo codificato quasi un anno fa e che ci sta sempre più a cuore. Anche a seguito del buon esito di questa esperienza-test, il prossimo autunno il CFMT proporrà un ciclo di eventi interaziendali dedicati ad un approccio "saggio" al lavoro, che ci consentiranno di presentare il Wiseworking in modo più esteso e dettagliato. A tutto ciò si aggiunge un'ulteriore bellissima notizia: in Giugno, sempre attraverso il CFMT, terremo un seminario intitolato Nature-inspired Management, che propone un confronto analogico fra i principi che governano il mondo naturale e un nuovo modo di concepire le organizzazioni professionali, la loro gestione e il loro sviluppo. Esattamente come per il caso precedente, in autunno questo macro-tema verrà declinato in tre ulteriori workshop di approfondimento. Insomma, siamo colmi di gratitudine e gioia per tutte queste opportunità: non solo perché ci danno modo di diffondere contenuti e prospettive che reputiamo meritevoli di attenzione, ma anche perché sono accompagnate e facilitate dall'incontro con persone delle quali abbiamo grande stima professionale e con le quali ci sentiamo umanamente molto allineati. Quando si verifica una "congiuntura" di questo tipo, il lavoro acquista un sapore speciale: ecco perché ci tenevamo particolarmente a celebrare insieme a tutti voi questo piccolo grande passo nel percorso di crescita del nostro Progetto!

A qualche mese dalla pubblicazione del nostro primo paper dedicato all'argomento, siamo tornati a riflettere sul concetto di wiseworking, nato dalla convergenza di molteplici riflessioni maturate nel tempo e poi catalizzate dall'esperienza Covid. Lo abbiamo fatto perché ci è sembrato importante approfondire le implicazioni e immaginare con maggior dettaglio le possibili traduzioni operative di questo modo di intendere il lavoro. L'auspicio è che possa fornire spunti di riflessione fertili a beneficio di tutti coloro che, a vario titolo e con differenti gradi di responsabilità, abitano e partecipano alla vita di un'organizzazione

L’abbiamo vista arrivare da lontano, avvicinarsi lentamente, e poi sempre più velocemente; ed ora eccola tra noi, la seconda ondata. C’è una differenza importante rispetto al primo impatto del Covid in marzo e aprile. In quelle settimane la pandemia ci ha colpito come uno schiaffo improvviso, il cerchio si è stretto molto rapidamente e i sentimenti dominanti erano la preoccupazione e l’ansia per qualcosa di ignoto. Nei mesi successivi molti commentatori hanno scritto che per la prima volta la storia aveva bussato alle porte di questa generazione di adulti. Ed è vero: mentre le generazioni precedenti avevano vissuto sulla loro pelle carestie, guerre e rivolgimenti epocali, la pandemia ha costretto per la prima volta gli adulti di oggi a confrontarsi con qualcosa di ignoto e terribile, che ha cambiato in brevissimo tempo le vite di tutti noi. Quindi ovvio che fossimo impreparati: affrontavamo una situazione cognitivamente ed emotivamente senza precedenti.    Questa volta invece sappiamo quale potrà essere il decorso della vicenda, immaginiamo i tempi e le modalità. Ciò per certi versi argina la paura che ogni spavento genera, lasciando il posto ad un sottile – ma non meno faticoso – sentimento di angoscia. Tale condizione emotiva va riconosciuta e aiutata, anche a livello organizzativo. Ora che molte aziende si sono attrezzate per poter gestire (laddove possibile) il lavoro a distanza, l’attenzione di manager ed HR si sta spostando in modo più diretto e strutturato sul sostegno psicofisico delle loro persone, con la consapevolezza che la tutela di un sufficiente grado di ben-essere complessivo è presupposto fondamentale per risultati sostenibili e duraturi.      MensCorpore, seguendo un modello di ben-essere “a 6 sorgenti” proposto anche attraverso il suo libro-manifesto, si muove per offrire supporto alle aziende e alle loro persone. Due sono le possibili tipologie di interventi che proponiamo: a 1 – Percorsi on-line di sostegno al benessere individuale. MensCorpore propone in modalità on-line attività che sono normalmente (da molti anni) realizzate in presenza. I format a distanza sono stati sperimentati su richiesta di alcune aziende durante il primo lockdown – si veda per es. l'esperienza con Pirelli – e l’offerta viene ora ampliata:  METODO FELDENKRAIS: liberare il corpo da abitudini posturali disfunzionali attraverso il movimento sottile e l’ascolto percettivo. QI-GONG: ginnastica “di lunga vita” per attivare, ammorbidire e armonizzare il sistema corpo-mente. BIOENERGETICA: lavorare con il corpo e il respiro per sciogliere le rigidità emotive e ritrovare vitalità. MEDITAZIONE MINDFULNESS: semplici pratiche di consapevolezza per coltivare presenza mentale e stabilità emotiva.  PILATES MATWORK: un approccio integrale e sicuro al lavoro corporeo per coltivare elasticità, tono ed energia.    WELLNESS WORKOUT: allenamento completo di fitness a corpo libero per trovare e mantenere una buona condizione fisica. YOGA RATNA: integrazione di più stili per una pratica di ben-essere completa e armonica. HATHA VINYASA YOGA: per prendersi cura del proprio corpo e respiro, attraverso un movimento armonioso e gentile. Questo tipo di percorsi vengono proposti con format di 8 incontri settimanali da 60 minuti, con un massimo di 12 partecipanti (il prezzo è di 1.200€ + IVA). aaa 2 – Interventi taylor made di formazione o sviluppo organizzativo, progettati e realizzati per rispondere alle specifiche esigenze del cliente. MensCorpore ha organizzato nel tempo – dunque a prescindere dall’emergenza Covid – quattro linee di lavoro, che è possibile visualizzare qui.  aa Per chiarimenti, approfondimenti, o per confrontarti con noi, scrivi a: info@menscorpore.org.