Le Experience sono speciali attività off-site progettate per piccoli gruppi aziendali.

Integrando formazione e ben-essere, offrono ai partecipanti occasioni di apprendimento che mescolano natura, gusto, cura di sé e relazione con l’Altro. Per saperne di più visita l’area del sito dedicata….

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Mi rendo conto che il titolo è un po’ forte, facilmente accusabile di clickbaiting. Di fatto però è proprio a questo tema che vorrei dedicare un paio di considerazioni. L’innesco dell’articolo è stato peraltro proprio un titolo, quello del libro dello psicologo Kevin Dutton in cui mi sono imbattuto: “The wisdom of psycopaths“. Il testo, a partire dagli studi di Robert Hare (psicologo forense e ricercatore esperto di crimonologia) esplora i tratti distintivi di quella che può essere catalogata come psicopatia (o per essere precisi ‘disturbo psicopatico di personalità‘) e prova a ipotizzare come alcuni di essi, se manifestati all’interno di un perimetro di legalità e integrazione sociale, possano rivelarsi fattori di successo. Soprattutto in determinati contesti, come per esempio quello organizzativo. Secondo l’autore ci sono aspetti della cosiddetta psicopatia che possono in effetti aiutare un individuo a emergere e affermarsi all’interno di un ambiente come quello aziendale: ad esempio un’alta propensione al rischio, una grande capacità di concentrazione e focalizzazione sull’obiettivo e un forte orientamento all’azione. Così come una notevole fiducia nei propri mezzi e una certa spregiudicatezza negoziale. Secondo Dutton queste inclinazioni, se ‘dosate‘ funzionalmente dal soggetto, diventano frecce al suo arco e danno maggiori chance di fare carriera: non è un caso se, in base alle sue ricerche (centinaia di interviste associate a specifici test somministrati in anni di lavoro), fra le professioni in cui maggiormente si riscontrano personalità con tratti psicopatici ci sono proprio Dirigenti e Amministratori Delegati. Il problema è che spesso e volentieri queste ‘qualità’ si manifestano insieme ad altre caratteristiche molto meno innocue e ‘virtuose’: ad esempio un basso livello di empatia e scarsa sensibilità nei confronti dei vissuti altrui, una tendenza a mentire e a manipolare l’Altro per il raggiungimento dei propri scopi, una mancanza di scrupoli e sensi di colpa per azioni eventualmente dannose, una dose rilevante di egoismo con spiccata tendenza al narcisismo (ovvero senso grandioso di sé e spinta ad impressionare/affascinare l’interlocutore).

È in sostanza molto difficile riuscire a scindere luci e ombre delle personalità psicopatiche e diventa interessante riflettere sul perché esse riescano comunque così facilmente a farsi strada in azienda:

una prima spiegazione è proprio la particolare inclinazione di questi profili ad acquisire ruoli di potere che restituiscano visibilità e rilevanza sociale. È un po’ come se fossero più motivati di altre tipologie di persone a ‘conquistare posizioni’, avendo una relazione con la realtà fortemente guidata dall’ambizione. Inoltre la loro carenza di remore e la conseguente baldanza comportamentale, che li porta a fare e dire cose che gli altri si limitano solo a immaginare, finisce per renderli oggetto di ammirazione e quindi identificati come più adatti guidare gruppi. Tanto è vero che si tende a considerarli come dotati di carisma e ‘leadership innata. Un’ulteriore spiegazione risiede per certi versi nei principi stessi del modello di sviluppo capitalista, che propone e implica una visione del mondo degli affari improntata sulla competizione: ha maggiori possibilità di vincere chi rischia di più, chi sa farsi valere, chi arriva prima degli altri;

e in una società che ha largamente metabolizzato queste convinzioni (portandole alle sue estreme conseguenze), è inevitabile che tali individui tendano a spiccare e a ottenere incarichi anche di grandi responsabilità.

Detta in modo un po’ brusco: la loro spietatezza garantisce a investitori e azionisti maggiori profitti e li rende meno titubanti di fronte a scenari complessi o a scelte drastiche. Non a caso, come affermano Floriana Irtelli ed Enrico Vincenti in un articolo scientifico sul tema, quello della ‘corporate psychopathy‘ è un fenomeno che è andato accentuandosi con la seconda metà degli anni ’90, con l’avvento cioè della globalizzazione dei mercati e di scenari macro-economici che hanno aumentato il grado di incertezza e quindi di pressione su aziende e manager. Meccanismi di questo tipo non riguardano però solo il mondo delle imprese e possono essere riscontrati ad esempio in campo politico, anzi spesso si creano degli slittamenti dall’una all’altra dimensione: le traiettorie professionali e personali di Silvio Berlusconi o ancor più di Donald Trump sono emblematiche in tal senso. È peraltro interessante notare come, in politica, figure con evidenti tratti psicopatici emergano con più frequenza in periodi storici fortemente connotati da instabilità e cambiamenti socio-economici su larga scala: anche qui, è come se questi profili offrissero un’illusione di forza e solidità a cui risulta facile affidarsi.

Una prima domanda è: quanto si nasce psicopatici e quanto lo si diventa? Non vi sono risposte certe sul tema e sebbene ci siano studi sulle componenti morfologiche del cervello e genetiche più in generale, si tende a dare molta rilevanza all’ambiente, soprattutto quello in cui si nasce e si vivono le prime esperienze affettive ed educative. Ma la vera questione è: prescindere dalle cause li hanno resi così come sono, quanto è saggio farsi guidare da questi soggetti? La risposta è ovviamente poco, ma non è affatto automatica. La seduzione dell’uomo forte (peraltro gli ‘psicopatici in azienda’ è statisticamente più probabile che siano proprio maschi) è potente e tocca corde spesso inconsce. In ambito organizzativo questa malìa si rompe solo con la consapevolezza dei danni collaterali che queste personalità producono: dall’impatto sul clima al turnover, per non parlare del rischio di alimentare demotivazione e conflitti nonché di prendere decisioni poco oculate. Quest’ultima in particolare è una possibilità sempre meno remota, considerata la crescente complessità dei processi da coordinare e di interdipendenza delle variabili con cui le aziende devono fare i conti. L’attivazione dell’intelligenza collettiva e la collaborazione orizzontale, dal punto di vista manageriale, sono strade molto più fertili e adatte a rispondere a questo tipo di condizioni. Ma per essere perseguite richiedono attitudini che difficilmente trovano spazio in una mente psicopatica.