Nel 1882, alla John Hopkins University, alcuni ricercatori fecero un esperimento: presero un grande calderone d’acqua e lo misero sul fuoco; quando l’acqua arrivò a ebollizione gettarono dentro alla pentola alcune rane vive, che immediatamente ne schizzarono fuori per salvarsi. A quel punto ripeterono l’esperimento, con una differenza: le rane questa seconda volta furono messe nell’acqua subito, quando era ancora fredda, facendo salire la temperatura pian piano, a fuoco lento. Gli animali non si accorsero della situazione di pericolo se non quando era troppo tardi, ovvero quando il calore (inizialmente piacevole) li aveva indeboliti a tal punto da non aver più le forze sufficienti per saltare fuori dal contenitore, morendo bollite. Negli anni, quello che è stato soprannominato ‘il principio della rana bollita’, è diventato una metafora sociologica per descrivere la facilità con la quale l’essere umano si adatta a situazioni disagevoli e persino dannose per la propria salute e sopravvivenza, perdendo progressivamente la capacità di sottrarsi ad esse e finendo per considerarle inevitabili. Recentemente Noam Chomsky, filosofo e linguista americano, nel suo libro Media e potere (che raccoglie diversi articoli accademici), è arrivato addirittura a utilizzare quest’espressione per stigmatizzare il processo di intorpidimento delle coscienze cui (a suo giudizio) le società occidentali o occidentalizzate sono andate incontro: In nome del progresso e della scienza, i peggiori attentati alle libertà individuali, alla dignità della persona, all’integrità della natura, alla bellezza ed alla felicità di vivere, si effettuano lentamente ed inesorabilmente con la complicità costante delle vittime, ignoranti o sprovvedute. I foschi presagi annunciati per il futuro, anziché suscitare delle reazioni e delle misure preventive, non fanno altro che preparare psicologicamente il popolo ad accettare le condizioni di vita decadenti, perfino drammatiche. Il permanente ingozzamento di informazioni da parte dei media satura i cervelli che non riescono più a discernere, a pensare con la loro testa. . Forse le parole di Chomsky sono eccessivamente tranchant e comunque meriterebbero un’analisi molto più complessa e puntuale di una semplice citazione. Noi vi proponiamo di fermarci un passo prima e considerare semplicemente le condizioni, innescate e necessitate dalla pandemia (a sua volta generata da scelte sistemiche poco saggie), con cui abbiamo dovuto fare i conti nell’ultimo anno. Non c’è bisogno di scomodare statistiche e ricerche (pur copiose) per realizzare quanto sono state faticose e logoranti da sostenere: a partire dalla paura del virus e delle sue molteplici conseguenze su di noi e i nostri cari, passando per la drastica riduzione delle interazioni sociali fino al calo dell’attività motoria e la contemporanea sovraesposizione tecnologica, c’è davvero l’imbarazzo della scelta. Le probabilità che il nostro ‘livello di vitalità’ sia diminuito sono alte, molto alte. Con questa termine intendiamo la sensazione di ben-essere corporeo, emotivo e mentale che scaturisce quando ci sentiamo pienamente a nostro agio, sicuri, parte integrante di un eco-sistema che va oltre noi stessi e che include persone, ambienti fisici e naturali. Ebbene, il dis-agio, l’insicurezza, la preoccupazione che hanno fatto irruzione nelle nostre vite, avendo tutto il tempo di mettere radici, rischiano di farci fare la fine delle rane bollite. Considerando la lentezza con cui la situazione sta tornando ad una qualche normalità, è quindi davvero importante che ciascuno di noi si prenda cura del proprio ben-essere. Anche perché la terribile forza d’inerzia generata dall’assuefazione a questo basso livello di energia potrebbe farlo persistere ben oltre la cessazione delle restrizioni esterne. Ciò che possiamo fare è anche solo fermarci un attimo, respirare con calma, e chiedere a noi stessi: “Come sto? Come mi sento? Di cosa ho bisogno ora? In che modo posso coltivare la mia vitalità?”. Volendo, il nostro modello a 6 Sorgenti può essere una mappa per orientarsi e dare