Il concetto di leadership è fra i più dibattuti nella storia degli studi organizzativi e il termine fra i più utilizzati all’interno delle aziende. Esistono un’infinità di manuali che provano a descrivere quella che viene a volte considerata principalmente un’attitudine, altre volte più una competenza da allenare, altre ancora una specie di talento naturale. Modelli che ne delineano le caratteristiche ispirandosi ai più disparati mondi e ambiti (dall’etologia alla mitologia, dallo sport alla storia) e le modalità per il suo sviluppo. È entrato a far parte del vocabolario comune e lo sentiamo pronunciare in molteplici contesti, di norma associato ai comportamenti di un individuo, detto leader, al quale si attribuisce la capacità di guidare (dall’inglese ‘to lead‘) persone più o meno formalmente sotto la sua responsabilità. Tant’è che quando un gruppo di qualsiasi tipo (partito, squadra, impresa, complesso musicale…) opera in modo disordinato e poco efficace si tende spesso a ricondurre il problema proprio alla mancanza di un leader: qualcuno che tiri le fila, indichi la strada e fornisca risposte ai dubbi e le domande di coloro che si affidano a lui/lei. Come facilmente intuibile, nella realtà questa figura viene caricata di aspettative molto alte, che tendono (di solito inconsapevolmente) a iper-responsabilizzare il soggetto in questione (esistente o auspicato) e de-responsabilizzare tutti gli altri. Naturalmente esistono interpretazioni che mettono l’accento sul ruolo di servizio di un leader (la cosiddetta ‘servant leadership‘), eppure anche in questi casi si finisce per sovrapporre ruolo e funzione: si dà cioè per scontato che sia soprattutto chi ha o assume la conduzione di un gruppo a poter rispondere alle sue esigenze, qualunque esse siano. I rischi connessi a tale orientamento culturale sono sotto gli occhi di tutti noi: la deriva superomistica (con annessi deliri di onnipotenza e fantasmi di impotenza) è dietro l’angolo, così come la tendenza a concentrare/delegare il potere decisionale (e non solo) a un numero sempre più ristretto di persone. Anche nella migliore delle ipotesi, si tratta comunque a nostro parere di una prospettiva limitante.
Ecco perché, quando parliamo di (e lavoriamo con) team reali (di norma dalle 4 alle 8/10 persone) all’interno di contesti organizzativi, abbiamo individuato e iniziato a sperimentare un termine alternativo: riteniamo infatti sia più adatta e puntuale la parola ‘provision‘, ovverosia la capacità di prendersi cura dei bisogni emergenti progressivamente all’interno del gruppo. Tale capacità, che presuppone un mindset ben preciso, non è prerogativa di uno specifico ruolo ma una funzione attuabile da ciascun membro del team a partire dalla propria esperienza e prospettiva. Ad ognuno è riconosciuta la possibilità di intercettare, segnalare e proporre soluzioni/risposte a criticità riconducibili tanto alla dimensione operativa quanto a quella relazionale. In tal senso ‘provision‘ può essere intesa come la contrazione dell’espressione ‘proactive vision‘, visione proattiva, un modo costruttivo e co-responsabile di porsi nei confronti di un gruppo rispetto al quale ci si riconosce interdipendenti.
Tutto ciò non entra in alcun modo in collisione con l’eventuale presenza di un responsabile formale, che al contrario ha tutto l’interesse a stimolare l’emergere di un certo livello di provision all’interno del team che è chiamato a coordinare. Questa ‘sensibilità diffusa’ facilita infatti una distribuzione più sostenibile (e realistica) della manutenzione del gruppo stesso nei suoi molteplici aspetti, rendendolo tendenzialmente più rapido nell’intercettazione di eventuali difficoltà e nella loro gestione. Lo specifico compito di un ‘capo’, proprio per il ruolo interpretato, è piuttosto quello di aiutare gli altri a percepire le reciproche interdipendenze e quelle che vincolano il gruppo all’organizzazione di appartenenza (dal dialogo inter-funzionale a quello con la Dirigenza). Ecco perché chi interpreta questo ruolo dovrebbe maturare prima e più di chiunque altro una vera e propria super-vision, una visione d’insieme/dall’alto, stimolando e aiutando di conseguenza i collaboratori a fare altrettanto: è in virtù di questa prospettiva sistemica che la cooperazione acquisisce ancora più senso.
Nella nostra esperienza tutto ciò non solo è possibile, ma è un passaggio culturale decisivo per trasformare le cellule base dei sistemi organizzativi più avanzati, ovvero i team di lavoro, in strumenti di innovazione che generino valore a molteplici livelli. Anche questo è wiseworking!