Le Experience sono speciali attività off-site progettate per piccoli gruppi aziendali.

Integrando formazione e ben-essere, offrono ai partecipanti occasioni di apprendimento che mescolano natura, gusto, cura di sé e relazione con l’Altro. Per saperne di più visita l’area del sito dedicata….

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Author: Samuele Maccioni

Nel mondo della scuola, si sente spesso parlare di innovazione didattica, tecnologie digitali, creatività. Ma cosa accade davvero quando si provano a mettere a terra questi concetti che troppo spesso rimangono chiusi nei dibattiti? Uno dei rischi più sentiti è  quello che le tecnologie – invece che essere utilizzati strumenti di emancipazione – diventino nuove forme di limitazione o addirittura di controllo, svuotate di significato e depauperate del loro eventuale potenziale benefico. In questo contesto, lo studio A Resonant Learning (RL) Framework, pubblicato nel 2024 su Education Quarterly Reviews dai ricercatori Charles White e Lawrence Wilde, propone una riflessione ambiziosa e profondamente necessaria: Cosa accadrebbe se, invece di parlare solo di “integrazione delle tecnologie nell’educazione”, provassimo a riportare al centro l’umano, ripensando l’educazione come spazio di risonanza? La loro proposta prende forma attraverso un “framework di apprendimento risonante” che unisce la teoria sociologica della risonanza di Hartmut Rosa con il modello creativo di Graham Wallas.  Il punto di partenza assume una prospettiva potremmo dire radicale: l’apprendimento, se vuole essere autentico, non può limitarsi a trasferire contenuti o formare competenze. Deve trasformare chi apprende – e lo può fare solo se si crea una relazione viva, emotiva, aperta all’imprevisto, tra studenti, insegnanti, contenuti, tecnologie, anime e luoghi .Non si tratta, quindi, di aggiungere un'app o una piattaforma al programma educativo. Si tratta di immaginare una scuola capace di “risuonare”, dove le esperienze formative siano segnate da momenti di sorpresa, connessione, meraviglia. Dove gli studenti non si limitino a rispondere correttamente, ma siano toccati da ciò che incontrano, si emozionino, si trasformino. In questa visione, la tecnologia non è il fine, ma uno strumento e un abilitatore per facilitare ambienti capaci di generare esperienze risonanti. Un esempio affascinante che gli autori approfondiscono è quello delle Laptop Orchestras: ensemble musicali in cui studenti usano computer e dispositivi digitali per creare musica collettiva. Non è solo un esercizio tecnologico: è un laboratorio in cui si sperimenta la collaborazione, l’improvvisazione, l’ascolto reciproco, la responsabilità creativa. In altre parole: si fa esperienza della risonanza. Tuttavia, questa prospettiva è tutt’altro che ingenua e tiene conto altresì degli idealismi che nasconde. White e Wilde infatti riconoscono le contraddizioni del sistema scolastico contemporaneo: l’uso delle tecnologie spesso resta superficiale; i docenti si trovano disorientati, a volte isolati; la pressione delle performance e della standardizzazione genera alienazione e burnout. Pertanto, è qui che il concetto di second-order resonance (risonanza di secondo ordine) diventa cruciale: non possiamo e non dobbiamo forzare la risonanza, ma possiamo creare le condizioni perché possa emergere. Il focus deve essere spostato dai discenti al sistema. L’obiettivo deve spostarsi a monte, non a valle. Per permettere agli studenti di risuonare è necessario creare ambienti carichi di significato, rituali educativi che non siano vuote routine, deve generare connessioni autentiche tra persone e saperi. In fondo, pensandoci, questo studio è anche una proposta politica. Chiede di rallentare, di ascoltare, di riconoscere che l’educazione non è solo una questione di contenuti o abilità, ma una pratica relazionale che coinvolge affetti, corpi,memorie. E che ogni volta che uno studente si emoziona davanti a un frammento musicale, o che un insegnante ritrova senso nel proprio mestiere grazie a uno sguardo o a una scoperta condivisa, lì si produce risonanza. Lì accade l’apprendimento. Non è un modello facile da applicare, e forse non vuole esserlo. Ma in un’epoca in cui il rischio è ridurre l’insegnamento a gestione di piattaforme o applicazioni digitali, il framework di Resonant Learning rappresenta un invito potente a reimmaginare la scuola come luogo di possibilità, trasformazione, vita. E voi cosa ne pensate? Per saperne di più, clicca qui!

La saggezza è un attributo che da sempre viene attribuito a figure eminenti da cui, almeno in teoria, bisognerebbe farsi guidare. Secondo il dizionario di Oxford è definita come: “L'equilibrio nel comportamento e nel consiglio, che è frutto di una matura consapevolezza ed esperienza delle cose del mondo.”  Ad una prima lettura appare lampante come la saggezza incarni due direttrici: una auto-diretta (verso sè stessi) e una etero-diretta (verso gli altri); un moto che agisce prima sull’individuo che la incarna e successivamente su coloro con cui questa persona si relaziona. Tuttavia, per quanto evocativa, la saggezza è una dimensione dell’essere che risulta difficile da indagare, soprattutto con gli strumenti riduzionistici della logica ‘classica’. Eppure c’è chi ha provato a muoversi in questo territorio incerto con rigore scientifico… Proprio quest’anno, un numero nutrito di ricercatori guidati da Maksim Rudnev dell’Università Canades e di Waterloo, ha pubblicato un’interessante articolo su Nature Communications che si pone l’ambizioso obiettivo di domandarsi quali siano le dimensioni che veicolano la percezione della saggezza, ovvero, quali siano le caratteristiche che una persona dovrebbe possedere per essere percepita come saggia. Lo studio, condotto su uncampione di 12 paesi appartenenti a 5 continenti diversi, ha fatto emergere due dimensioni principali: l’orientamento riflessivo e la consapevolezza socio-emotiva. Per orientamento riflessivo si intende principalmente la capacità di affrontare i problemi avvalendosi del pensiero analitico; ma attenzione, ciò non significa limitarsi a una semplice applicazione della logica. Questo tipo di orientamento richiede anche la capacità di fermarsi, riflettere e considerare una varietà di prospettive (convergenti e, forse soprattutto, divergenti) prima di prendere una decisione. Tale postura enfatizza e sottolinea la capacità diregolare le emozioni personali, ascoltandole, comprendendole e accettandole, per evitare che influenzino in modo negativo le decisioni; inoltre, consente di apprendere dall’esperienza e di applicare le lezioni imparate da essa in situazioni nuove. La mente riflessiva, quindi, non è solo logica, ma anche meditativa e lungimirante, cioè in grado di prevedere le conseguenze delle proprie azioni valutando attentamente ogni aspetto della situazione. La consapevolezza socio-emotiva invece evidenzia l’importanza di connettersi con gli altri in modo profondo e rispettoso. Questa capacità non riguarda solo il comprendere le emozioni degli altri, ma anche l’avere empatia e umiltà: qualità che permettono di entrare in sintonia con gli altri e di offrire sostegno senza giudizio. La consapevolezza socio-emotiva aiuta a evitare che l’ego o la rigidità personale ostacolino il rapporto con gli altri, promuovendo relazioni basate sulla comprensione reciproca e sul rispetto. È attraverso questo aspetto "del cuore" che una persona saggia può agire non solo per il proprio bene, ma anche per il bene collettivo. Riteniamo che queste due dimensioni, senza che esse semplifichino eccessivamente la questione (per approfondire vi rimandiamo direttamente alla consultazione del paper), se integrate nell’agire organizzativo possano generare impatti operativi e culturali in grado di modificare profondamente i contesti lavorativi, migliorandoli. E voi cosa ne pensate? Vi vengono in mente ulteriori dimensioni della saggezza? Vi capita di riscontrare persone o comportamenti ‘saggi’ nella quotidianità professionale? Per saperne di più, clicca qui!